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Lettere dall'altra parte: Odioso (1)



Era una giornata frenetica al locale “La tartaruga e la lepre”. “Mi faccia un caffè, per favore”, “Un panino con wurstel e crauti per me”, “Una cioccolata”, la piccola sala era gremita di gente. Questo succede quando lavori in una zona piena di uffici. Lei aveva sempre pensato che fosse un nome buffo, ma le piaceva davvero tanto. Amava servire gli altri, soprattutto amava fare il cappuccino. Ci provava tanto gusto che spesso creava dei disegni con il latte. I clienti abituali la adoravano, siccome era sempre raggiante a lavoro. Quando arrivava la sera non sentiva la fatica. Era sempre stata una donna molto attiva, dopotutto. Adorava quel locale. La cosa che preferiva più di tutte era il cartello che il proprietario aveva attaccato in bacheca presso l’entrata. Era una simpatica lista: “Un caffè”: 1.50€; “Un caffè, per favore”: 1.20€; “Buongiorno. Un caffè, per favore”: 1.00€. Ogni volta si divertiva a vedere come le persone reagivano leggendo quel cartello e come cambiavano improvvisamente atteggiamento.

«Che cosa significa quel cartello?».

Era appena entrato un giovane uomo. Aveva l’aria dello studente universitario, ma forse appariva più giovane soltanto per il suo modo di vestire.

«Molto semplice: che l’educazione è molto apprezzata in questo locale», spiegò sorridente lei.

«Mi faccia un caffè».

Sgarbatamente, il ragazzo, che non aveva neppure salutato, si era diretto ad un dei tavoli.

“Che maleducato!”. Gli preparò il caffè con la velocità che la contraddistingueva e glielo portò al tavolo.

«A lei», affermò infastidita.

Dopodiché tornò subito al suo lavoro, cercando di ignorare quel tale. Non sopportava le persone sgarbate, soprattutto chi lo faceva apposta ad essere sgarbato. Fino a quel momento non le erano capitate tante persone maleducate. Era stata abbastanza fortunata.

La raggiunse un cliente abituale di mezz’eta, che la salutò calorosamente e le chiese con gentilezza un caffè lungo. Si appoggiò infine al banco del bar.

«Meno male che c’è ancora gente ben educata a questo mondo», sentenziò lei ad alta voce, cercando di attirare l’attenzione del ragazzo.

Lui non cambiò di una virgola la sua posizione.

«Qualcuno ti ha fatto arrabbiare?», le chiese cordialmente l’uomo.

«Lascia stare», lei sorrise. «Una cosa stupida. Ti porto subito il tuo caffè».

«Non tutti sono gentili come te, purtroppo», affermò lui.

Servì il signore. Non riusciva più a scostare lo sguardo da quel tavolo.

«Grazie», gli sorrise.

Passarono le ore e quel ragazzo continuava a farsi i fatti suoi con il cellulare. “Avrà intenzione di pagare prima o poi?”. Siccome non c’era nessun altro cliente, lei cominciò a pulire i tavoli con lo straccetto. Poi passò con la scopa e con lo straccio. Non entrò nessun altro. Infine decise di sedersi e mangiare qualcosa, siccome non aveva ancora pranzato. Si preparò il suo panino caprese e la sua bottiglietta d’acqua.

«Allora?».

Lei alzò lo sguardo. Il ragazzo aveva deciso di alzarsi e piazzarsi davanti alla cassa proprio in quel momento. “Che fastidio”. Lei si alzò, abbandonando il suo pasto.

«Un euro e cinquanta»

«Un euro e cinquanta? Ho preso un caffè».

Lei indicò senza parlare il cartello. “Cristo santo. L’ha anche letto”.

«Ma stai scherzando, vero?»

«Non scherzo. Sei stato sgarbato e paghi quei cinquanta centesimi in più»

«Io non pago di più per una cosa simile! È assurdo».

Le uscivano i fumi dalle orecchie per la rabbia.

«Tu sei entrato nel mio locale, hai guardato per un minuto il foglio lì appeso e poi mi hai risposto in modo scortese, senza nemmeno salutare… e io dovrei credere che non avevi capito?».

Il ragazzo si adirò. «O mi fai pagare un euro, o non pago nulla. A te la scelta».

“Porca puttana quanto lo odio”. Lei fece un grosso respiro. Non si poteva permettere di cacciare quel cliente, come avrebbe tanto voluto, ma per il bene del locale doveva accettare le sue condizioni.

«Un euro», lei allungò il braccio.

Il ragazzo la pagò in silenzio. Sembrava essersi dimenticato di ciò che era appena accaduto ed era tornato a sedersi. Strano, di solito i clienti arrabbiati non si comportavano così. Lei raggiunse il suo tavolo per prendergli la tazzina.

«Non prenderla»

«Perché, scusa?»

«La prendi quando me ne vado»

«Ma hai finito!», a quel punto lei sbottò. Non ce la faceva più. «Mi stai prendendo in giro per caso? Qual è il tuo problema?».

Lui non parlò fingendo di non averla sentita. Allora lei allungò la mano per prendere la tazzina. Sobbalzò quando l’uomo le bloccò il braccio con la mano, fulminandola con lo sguardo.

«T-tu hai qualche problema».

Lei provò a tirare, ma lui non voleva mollare la presa.

«Non-toccare-le-mie-cose».

La lasciò e lei si allontanò in fretta da quel pazzo. Non aveva più intenzione di averci a che fare e nemmeno di servirlo più se fosse tornato un altro giorno.

«Ehi, Misa!».

Nel frattempo era arrivato il proprietario del locale.

«Ciao Federico», lo salutò cercando di sorridere, cosa che in quel momento le risultava davvero difficile.

«Come è andato questo pomeriggio?», le chiese lui sedendosi su una sedia davanti al bar.

«Beh, è stata una giornata particolare», lei mosse lo sguardo verso l’uomo che le aveva afferrato il braccio solo qualche minuto prima.

«Uh!», appena Federico notò il ragazzo, gli si avvicinò. «Scusami Misa, non vi ho ancora presentati. Lui è mio figlio, Roberto».

Il ragazzo rivolse a lei lo sguardo ed accennò un breve sorriso.

«T-tuo figlio?»

«Esattamente. Oggi avrà il suo primo turno».

“Aspetta, aspetta… vuoi dirmi che lavorerà qui?”. «Ha i turni serali?»

«I turni serali del sabato e della domenica e il turno pomeridiano del martedì»

«D’accordo», lei lo guardò. “Accidenti. Il martedì lavoro anche io, il pomeriggio”.

«Sono sicuro che andrete d’accordo. Siete entrambi studenti».

“Oh! Sicuro come l’oro, guarda”, pensò lei ironica.

Era per quello che aveva affermato che la tazzina era sua? Perché suo padre era il proprietario? Lei cominciò a cambiarsi: indossò il suo cappotto invernale e la sua sciarpa preferita, tonda e calda. Poi recuperò il suo zaino blu e salutò Federico, ignorando completamente l’altro, che tanto non sembrava interessato a salutarla.

Mentre camminava sulla strada innevata, non faceva altro che pensare. “Proprio a me doveva capitare? Un tizio così sgarbato… mi ha anche preso il braccio. Non ci credo”. Camminò fino alla fermata dell’autobus. Come al solito il mezzo ci impiegò cinque minuti per arrivare. Rispetto agli altri mezzi era davvero puntuale. Quando vide che era pieno come un uovo, si preparò a tenersi appiccicata alla porta. Una volta salita, pescò dalla tasca della giacca delle cuffiette. La musica accompagnò il suo viaggio verso casa.

****

«Ciao Arty. Come va?», la salutò l’uscere.

Lei si sistemò il gilet con un colpetto. «Potrebbe sempre andar meglio».

Aveva il turno di notte nel locale “Besame mucho”, un pub che organizzava notti accompagnate da musica pop-rock, in cui erano spesso ospitati concorsi per giovani cantanti e musicisti, e da balli di gruppo. Era un clima fin troppo acceso per lei, che desiderava soltanto andarsene a casa e gettarsi sul letto.

«Arte! Tavolo 16».

Giacomo, l’aiuto cuoco, la chiamava sempre così. Era un nomignolo strano, ma non le stava tanto antipatico. Lei poggiò sul vassoio un piatto di olive all’ascolana ed un bicchierone di birra e si avviò. “Perché mi sono scelta proprio questo lavoro? Chi me l’ha messo in testa?”. Servì il cliente e si diresse verso un tavolo al quale si era appena seduto un ragazzo. Al suo fianco era appoggiata una chitarra classica.

«Buona sera», disse svogliatamente. «Desidera…?».

Il ragazzo la osservò intensamente. Sembrava quasi interessato. Poi sorrise.

«Buona sera. Io mi aspettavo una cameriera ed è comparso un angelo».

Lei rimase impassibile. «Desidera qualcosa, o devo andare a servire qualcun altro?»

«Mi porti una Coca, per favore»,

Lei stava per andarsene quando lui aggiunse.

«Ah, e intendo partecipare al concorso».

“Concorso? Questa sera ce n’era uno? Che palle”. Lei si avvicinò al ragazzo tirando fuori il suo blocco note. Solo in quel momento si accorse che aveva scritto proprio il giorno prima del concorso di quel giorno. «Lei come si chiama?»

«Leonardo Berlinguer», lui sorrise compiaciuto.

«D’accordo, Leonardo. La competizione avrà luogo alle 21, dopo cena. Lei sarà l’ultimo perché non si è prenotato»

«Vorrà dire che aspetterò».

Lei tornò al suo lavoro, con il suo solito fare svogliato e la sua voce spenta. Servì qualche piatto e solo dopo venti minuti si accorse che quel giovane la stava continuando a fissare. “Che fastidio”.

«Arte, tavolo 1 e 14!».

Scattò nuovamente. Toccava ad una coppia di uomini e ad un’altra di un uomo e di una donna. I primi avevano ordinato delle polpette e del vino rosso, mentre i secondi avevano ordinato lui la pasta alla diavola e lei una pasta al pesto.

“Probabilmente la prima è una coppia di fidanzati, mentre gli altri due si sono appena conosciuti”. Ogni tanto le piaceva tirare ad indovinare riguardo ai commensali. Molto spesso ci azzeccava. Ma era solo per caso. Non aveva mai pensato di avere un intuito particolare.

Passò al tavolo del chitarrista. «Hai finito di berla?».

«Che fretta c’è?», chiese lui.

«Oh. Nulla», lei fece spallucce e si allontanò.

Dopo l’orario di cena, cominciarono ad arrivare i musicisti. Una sua collega, Elena, cominciò a presentare i primi della lista, un uomo sulla trentina che reggeva una chitarra ed una cantante, forse più vecchia, con una voce stridula.

“Santo cielo. Che cosa mi tocca sentire”. «Vi prego, liberatemi», si rivolse lei sarcastica al suo collega Davide, che non le dava mai troppa retta, ed a Giacomo, che invece sembrava divertirsi alle sue battute.

«Desidero solo tornare a casa in questo momento. Senti quando diamine è stonata? Pare una campana che si è presa troppe botte»

«Non sei un po’ cattiva?», le rispose Davide, che sembrava apprezzare quel brano.

«Detesto il pop», ribatté lei. «Non è per niente il mio genere».

«Fammi indovinare… sei una metallara», buttò lì Giacomo divertito.

«Apprezzo la buona musica. Molto semplice. Non queste cagate. Comunque, gotic metal».

«Capisco. Il tuo aspetto dice tutto in effetti».

Si riferiva al suo trucco pesante e nero. Quella volta aveva evitato di utilizzare il rossetto nero, perché il manager l’aveva rimproverata più volte per questa cosa. Secondo lei non sapeva apprezzare la bellezza del nero.

Passarono le ore e arrivò il turno del ragazzo che aveva inserito alla fine della lista. Per la prima volta si sentì attratta da una canzone. Era così semplice, ma allo stesso tempo così profonda. Non ne rimase incantata, ma doveva ammettere che le piaceva parecchio la musica di quel ragazzo. Era strano.

Quando terminò il suo pezzo seguirono gli applausi ed anche lei gliene concesse due, prima di tornare a lavoro. I loro sguardi si incrociarono per un attimo. Poi lei si girò imbarazzata.

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