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Lettere dall'altra parte: Corrispondenza (2)



Erano le sette del mattino. Lei aveva già aperto il locale da un’ora e stava disponendo le brioches nell'apposito espositore. Aveva lavato il pavimento ed aveva cucinato le pietanze che di solito mettevano in esposizione. Era sempre stata brava a fare tutto da sola. Tutto doveva essere in ordine ed al suo posto. Aveva finito di passare lo straccio sul bancone e sul lavabo che entrò qualcuno. Misa, pensando che si trattasse di un cliente, si appostò immediatamente, salutando con un “Buongiorno” caloroso.

«‘Giorno».

Non era un cliente, ma Roberto, il figlio del proprietario. Avrebbe dovuto lavorare con lei quel giorno, siccome era martedì. Entrando aveva gettato la sua giacca sulla sedia più vicina. poi si era avvicinato all'espositore delle brioches e ne aveva rubata una dandole un grosso morso.

«Quella è per i clienti!», lo sgridò lei come si potrebbe fare con un cane.

Lui non rispose e se la finì, seduto al tavolo.

“Quanto lo odio”, pensò fingendo di non aver visto nulla, “Posso farcela anche da sola. Senza questo idiota. Ma chi me l’ha fatto fare?”.

Cominciarono a vedersi i primi clienti. Quel giorno i più mattinieri sembravano poco interessati a prendersi il proprio caffè, alcune volte le capitavano dei clienti fin dall'inizio della giornata lavorativa, che la aspettavano addirittura davanti al bar ancora chiuso. Lei adorava l’odore delle brioches appena sfornate. Era una cosa che la ritemprava dalla stanchezza mattiniera.

«Hai finito di poltrire?», rimproverò Roberto che anche dopo aver finito la brioche non si era degnato di cominciare a lavorare. «Ti ricordo che sei a lavoro, non a casa tua».

«Questo bar è di mio padre… ti ricordo».

Il fastidio le salì lungo la schiena, fino a raggiungere livelli altissimi. Lei si avvicinò al suo tavolo e gli lanciò in mano la straccio. «Pulisci o dovrò dire a tuo padre che suo figlio è uno scansafatiche».

Lui le fece il verso, ma sorprendentemente prese lo straccio e cominciò a pulire il suo tavolo. In pochi minuti si mise il grembiule e cominciò a servire i clienti. Lavorava molto meglio di quanto Misa potesse immaginarsi. Faceva apposta a farla spazientire forse?

Una signora anziana e chiacchierona entrò nel bar. «Buongiorno bella. Mi faresti un caffè lungo per piacere?».

«Certamente».

Proprio mentre si metteva alla macchina del caffè e la svuotava del contenuto già usato, la donna salutò Roberto.

«Roberto! Buongiorno. Ma che bravo questo ragazzo. Come va a casa?»

«Bene signora, la ringrazio per avermelo chiesto. A lei come va?».

La donna cominciò a parlare della pigrizia del marito ed a raccontare un divertente aneddoto. Era incredibile quanto fosse diverso comportamento del ragazzo con i clienti.

Misa uscì per buttare gli ingredienti meno freschi. Il cestino era dall’altra parte della strada. Vide un gatto che, trotterellando, si avvicinò al locale. Lei si fermò un attimo ad osservarlo, con il sacchetto della spazzatura in mano. Ad un tratto Roberto uscì, lo vide e tornò dentro. Lei, incuriosita, rimase ad osservare la scena. L’uomo uscì dopo qualche minuto con in mano una ciotolina, che appoggiò per terra. Poi rientrò. Misa si sentì un po’ confusa ed ammirata allo stesso tempo da quel gesto. Perché quel ragazzo era allo stesso tempo così insopportabile e così gentile?

Rientrò al bar e finse di non aver visto nulla.

Alla fine del turno, Misa si preparò per andarsene e proprio in quel momento Roberto le si avvicinò.

«Senti: scusa per quello che è successo venerdì scorso».

Lei si sorprese nel sentire quelle parole.

«Sono stato sgradevole. Lo so»

«Okay. Non importa. Però cerca di comportarti in modo più maturo», rispose lei.

«Hai ragione. Sono stato maleducato. Non ti ho nemmeno chiesto quanti anni hai».

Lei lo analizzò per un secondo, cercando di convincersi che non fosse un maniaco. «Ho 23 anni… tu?»

«La stessa età. Incredibile», sorrise.

“Ha un sorriso affascinante per essere un cretino”, pensò lei ridendo da sola.

«Che c’è?», chiese lui incuriosito dalla risata.

«Oh. Nulla».

Percorsero la strada insieme, parlando del più e del meno: dell’università, della famiglia, degli affari propri. Quando ebbero raggiunto la fermata dell’autobus, Misa aveva scoperto un sacco di cose su quell’uomo. Sapeva che amava gli animali, che era uno studente eccellente e che voleva diventare veterinario, che faceva volontariato e anche il dog-sitter. Insomma, una persona che amava così tanto gli animali come poteva avere un carattere così terribile con chi gli stava vicino. Era un grande pignolo e non mancava mai di rimbeccare qualcosa e anche violento, per quanto aveva constatato Misa giorni prima. Nonostante ciò, gli cominciava a stare simpatico. Anche a lei piacevano gli animali, perciò non poteva essergli del tutto avversa.

«Bene, io me ne vado. Buona giornata».

Il suo autobus era appena arrivato.

«Ciao. Ci vediamo il prossimo martedì», la salutò lui con un fievole sorriso.

****

“Miao”. Una palla di pelo nera le sfiorò la gamba, facendole il solletico. Lei chiuse la porta dietro di sé.

«Ciao gatto. Hai fame?».

La bestiola cominciò a miagolare disperatamente per richiamare la sua attenzione.

«Sì, sì. Certo. Adesso ti do la pappa».

Arty si tolse l’uniforme del ristorante e si sfilò le scarpe abbandonandole all’ingresso e facendo un saggio scambio con delle morbidissime pantofole lilla. “Quanto siete morbide. Aaah”. Si mosse in cucina e servì la gatta, che sembrava non mangiare da una vita. Aprì il frigorifero e vi diede una veloce sbirciata. Era quasi vuoto. Ne trasse fuori un succo all’arancia e se lo versò con parsimonia. “Non sia mai che finisca anche questo”. Dopodiché, a passo leggero per non svegliare sua madre, andò in bagno a struccarsi. Aveva addosso un tale strato di trucco che consumò sei dischetti di cotone. Infine si rintanò nella sua camera. Era mezzanotte. Si sdraiò a pancia in giù sul morbido letto e si infilò le cuffiette. La voce di Amy Lee risuonò nelle sue orecchie: “I can't breathe but I feel... Good enough… I feel good enough for you.”. “Non avrò mai una voce come la sua”. Lei si stava torturando i capelli, arrotolandoli sulle dita. Prese il portatile e lo accese. Il suono dell’accensione scoppiò nella stanza, così forte da costringerla ad abbassare velocemente il volume. Aprì la posta elettronica e cominciò a scrivere una mail. Una mail che sembrava il capitolo di qualche romanzo.

Ciao,

Perdonami se ti scrivo sempre in ore tarde. Mi stai simpatica e credimi che è difficile che io lo dica a qualcuno. Quando parlo con te mi sento bene. Non so esattamente la ragione di questa cosa. È così e basta. Come te la passi? Io non tanto bene. Ho troppo da studiare e troppo lavoro da fare. Davvero, non so come tu faccia a vivere con tutti i tuoi impegni. Ti ammiro molto. Ci potremo mai vedere un giorno? Magari me lo insegni. In questi giorni c’è un ragazzo che mi sta perseguitando. Sì, dico perseguitando perché è sempre al Besame Mucho. Ogni dannato giorno si siede allo stesso posto. Usa sempre la scusa di dover suonare da qualche parte, ma passa il tempo a fissarmi. Non capisco se sono io ad avere manie di persecuzione o se è davvero uno stalker. Tu che dici? Ma cosa scrivo… è ovvio che mi dirai di resistere, è il mio lavoro. Tu e la tua serietà. Io non so se ci riesco. Ammetto che è anche per questo che ti chiedo consiglio al riguardo: ho troppi problemi ad accettare questa cosa.

Rispondi presto, ti prego.

Buona notte.

Era da un po’ di tempo che lei ed un’altra ragazza stavano mantenendo un rapporto di corrispondenza. Erano diverse praticamente in tutto. Eppure Arty sentiva che quella ragazza era più di un semplice destinatario. Inviò il messaggio e tornò a sdraiarsi, stiracchiandosi per bene sul letto, osservando il soffitto, incantata dal lampadario. Rapita dai suoi pensieri. In quel momento decise che doveva dormire. Si allungò verso il cassetto del comodino. Tirò fuori le sue pillole e ne prese una. Si mise sotto le coperte. Un aroma dolciastro riempiva la sua camera. Era circondata da pareti rosa. Lo scheletro del suo letto era bianco. Quella sarebbe sembrata la camera di una bambina se non ci fossero stati poster di gruppi metal sull’armadio e coperte nere con piccoli disegni stilizzati di teschi umani. Siccome non riusciva a dormire, per evitare di continuare a guardarsi intorno, prese il suo portatile e se lo appoggiò sulle gambe. Cercò su Internet dei bei film da guardare, ma nulla la interessava davvero. Poi aprì la posta elettronica. Nulla: nessuna nuova mail. Era la prima volta in vita sua che ci teneva così tanto a ricevere una mail.

Sentì il rumore dei passi di sua madre. Doveva essersi svegliata per via del rumore che aveva fatto prima con il pc.

«Sei tu?», chiese con voce stravolta senza nemmeno aprire la porta.

«Sì. Mamma».

La donna aprì la porta. «Quando sei tornata?», le si avvicinò strofinandosi gli occhi.

«Giusto venti minuti fa»

«Capito», sua madre la guardò sorridendo. «Hai preso il farmaco?»

«Sì. Mamma»

«Va bene. Ti lascio in pace allora. Buona notte»

«Buona notte».

Lei chiuse la porta e tornò a dormire. “Mamma… come fai a dormire così facilmente?”. Non riusciva mai a dormire bene. Spesso si svegliava nel mezzo della notte. Per quello aveva paura di dormire. Non si ricordava più del motivo per cui stava prendendo quei farmaci, ma ormai ci aveva fatto l’abitudine. Non ricordava nemmeno quando aveva iniziato, in realtà.

Assunse la posizione fetale. Quella che la faceva riposare meglio di solito, ma i suoi occhi rimanevano aperti, anche se al buio. “Buona notte, Misa”, pensò sorridendo. Sul suo viso scivolò una lacrima calda.

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