Storia dedicata a Ivan (@i.dapiz)
Parole: vacanza, pipistrello, tv, botola, patate
Nonno Gennaro era un tipo burbero e di poche parole. Non soffriva proprio il rumore, soprattutto se provocato da tre bimbi urlanti che giocano in giardino. Quando era tranquillo si sedeva sul suo bel divano e guardava il suo programma preferito, non dando conto a nessuno, ma erano guai se si osava disturbarlo nel suo momento meditativo. Se uno dei suoi nipoti si fosse fatto male giocando, o se avesse fatto i capricci, sicuramente lo avrebbe rincorso con le ciabatte urlando “Così impari a fare casino! Se ti prendo, vedi come ti faccio male io!”. Era un nonno particolare, ma tutti perdonavano i suoi comportamenti un po’ sopra le righe, visto il suo triste passato. Sua moglie era morta giovane, aveva appena trent’anni e da allora Gennaro non era stato più lo stesso. Beveva, trascorreva le sue giornate steso sul divano, o usciva per lunghe passeggiate. Nessuno sapeva dove andasse, forse in qualche luogo isolato conosciuto solo da lui.
Io e i miei fratellini, Samuele e Remo, ci divertivamo molto quando andavamo in vacanza alla sua casa in campagna. Spesso gli facevamo scherzi stupidi, come suonare il campanello e nasconderci, oppure urlare da sotto la finestra, per poi scappare a gambe levate e tante altre piccole cose che lo imbestialivano. Il nonno ci doveva odiare e forse è per queste ragioni che ci chiamava “Piccole bestie di Satana”. Noi eravamo bambini d’altronde, ci divertivamo con poco e facevamo un gran baccano. Non ci aspettavamo che nonno Gennaro potesse nascondere qualcosa, per noi era solo il nonno cattivo che non ci sopportava.
Un giorno, nostra madre tornò dal mercato del paese con le braccia cariche di buste dai profumi irresistibili. Poi preparò il purè di patate per tutta la famiglia e nel mentre noi giocavamo con le nostre carte sul tavolo piccolo per i bambini. Il nonno era, ovviamente, sul divano a guardare la tv e al primo “Uno!” urlato da Samuele balzò in piedi con il suo fare intimidatorio. Fuggimmo a gambe levate dalla mamma. Lei ormai era abituata alle sfuriate quotidiane del padre e non ci fece troppo caso, abbandonandoci alle sue grinfie. Fuggimmo fuori casa, lui non aveva mai voglia di rincorrerci fino al giardino, così tirammo un sospiro di sollievo.
«Anche oggi salvi dalle ciabatte» affermò scherzoso Remo.
«Che facciamo? Il nonno è più nervoso del solito oggi» chiesi io.
«Più del solito?» Samuele rise «È sempre nervoso».
«Devo mostrarvi una cosa. L’ho scoperta ieri sera».
Remo ci guidò dietro alla villetta, fino a un angolo che non avevamo mai esplorato prima, ricoperto dalla vegetazione. Poi sollevò qualche ramoscello d’edera. Con l’inverno le giornate si erano dimezzate e stava già facendo buio. Nonostante questo notammo subito una botola in legno, che era perfettamente mimetizzata tra le sterpaglie.
«Voi dove pensate che porti?» chiese Remo.
«Forse c’è un piano sotterraneo» supposi.
«Mamma sa che c’è?» Samuele sembrava molto incuriosito dalla botola, tanto che la tastò più volte.
«Di sicuro non porta a Narnia» dissi io.
«Cosa te lo fa pensare?» mi prese in giro Remo.
«Apriamola» Samuele aveva trovato la maniglia.
«Aspetta, aspetta, aspetta. Non dovremmo chiedere a mamma prima?» io ero il più fifone del gruppo, ma anche quello che si era più spesso preso le botte al posto degli altri.
«Hai paura di una botola?» Remo aiutò Samuele.
Insieme riuscirono a sollevare quel pesante coperchio, aprendosi una buia strada verso chissà dove. Dalla botola fuoriuscirono tre pipistrelli, che ci fecero sobbalzare. Samuele ci si infilò appena ne ebbe l’occasione, Remo lo seguì facendomi un gesto di saluto in stile militaresco. Io rimasi un attimo a riflettere prima di seguirli. Dovevo assicurarmi che non si facessero male, altrimenti avrei preso per primo le mazzate da mia madre.
«Sembra una cantina» disse Samuele, mentre Remo e io non avevamo ancora poggiato i piedi per terra.
«Il vecchio ci ha sempre tenuto nascosto questo posto, perché?»
Ero sorpreso della scoperta. Non avevo mai sentito nostra madre parlare di un seminterrato.
Perlustrammo la stanza in ogni angolo, ma al suo interno non c’era niente di interessante, solo una grossa cassa di legno di due metri, stesa a terra. Samuele ipotizzò che si trattasse di una cassapanca, ma a me sembrava troppo ampia e bassa. Colto dalla curiosità la aprii per dare una sbirciata al suo interno. Non c’era niente, uscì solo una forte puzza.
«Puzza di uova marce» affermò disgustato Remo.
«A me sembra più carne marcia» lo corressi.
«Bah, non c’è nulla di interessante. Io torno su» disse scocciato Samuele.
Lo seguimmo, ma prima di risalire le scale diedi una nuova occhiata alla cassa. Nel mio cervello in quel momento passò l’idea che potesse trattarsi di una cassa da morto, ma non rimasi a pensarci troppo.
Tornammo a casa, dopo la scoperta deludente, giusto in tempo per cenare. La mamma era sorpresa di non averci dovuto chiamare a squarciagola, forse era per quello che era di buon umore.
«Papà!» chiamò il nonno.
Nonno Gennaro non era più sul divano, era sparito. La mamma lo cercò in giardino per svariati minuti prima di tornare da noi.
«Sarà andato a fare una delle sue passeggiate. Proprio a quest’ora doveva farlo?»
Nostra madre lasciò perdere e mangiammo le squisitezze che aveva portato su dal paese: un bel polletto arrosto, crocchette di patate, olive all’ascolana, con l’aggiunta di un morbidissimo purè fatto in casa.
Il nonno tornò quando ormai era buio pesto, annunciando che era venuto per noi il momento di andare a dormire se non volevamo guai. Eravamo pronti a salire, ma il nonno non sembrava interessato a sgridarci, anzi si diresse nella sua camera da letto e si stese. Era pallido, sembrava sfinito. Nostra madre andò da lui e gli chiese se stesse bene. Nel frattempo noi raggiungemmo la nostra camera e rimanemmo sulla porta a origliare ciò che avveniva al piano di sotto. Il nonno non rispose a nessuna delle domande della mamma. Ad un certo punto lei gli diede la buona notte e lo lasciò da solo.
Noi ci chiudemmo in camera, facendo finta di niente. Quella notte ci divertimmo a speculare su dove potesse essere stato il vecchiaccio. Samuele pensò a un luogo isolato nel bosco, dove il nonno si era fermato a chiacchierare con un albero secolare. Remo ipotizzò che fosse un super cattivo impegnato in una battaglia epica con il protagonista di qualche fumetto. Solo a me tornò in mente quella botola.
«E se il nonno nascondesse cadaveri?»
I due non si aspettavano una risposta del genere.
«Sarebbe troppo banale» rispose Remo annoiato.
Dopo quella reazione persi la voglia di chiacchierare, ma non smisi di pensare a quella possibilità per tutta la notte. Il nonno era tornato a casa sfinito, sul tardi, la botola era celata alla vista. Forse ci stava nascondendo qualcosa di importante. O forse guardavo troppe serie poliziesche.
Il giorno seguente mi alzai al canto del gallo. Avevo avuto un sonno movimentato e non riuscivo più a chiudere occhio. Scesi in cucina e bevvi un bicchiere d’acqua, seduto al tavolo. Ci volle un po’ per trovare la voglia di mettere qualcosa sotto ai denti. Proprio quando aprii la porta del frigo, sentii un rumore. Mi parve un fruscio. Mi girai lentamente. Il mio terrore più grande era sempre stato quello di ritrovarmi qualcuno alle spalle, in una stanza buia, da solo. Non c’era nessuno. Persi l’appetito e chiusi il frigo. Davanti a me comparve una figura femminile, così magra e pallida da non sembrare reale. I suoi occhi erano quasi bianchi, si vedevano appena le grigie pupille. Scattai indietro e inciampai terrorizzato, rovinando sul pavimento. Quell’essere era surreale, sembrava un cadavere, ma era come se qualcosa lo tenesse inchiodato alla vita. Sulla sua testa spuntavano dei capelli scuri incrostati. Il suo corpo era coperto da una lunga vestaglia bianca sporca di terra. Mi aggredì e io urlai più forte che potei. Cercai di divincolarmi, ma non resistetti a lungo, era troppo forte. Sbattei la testa a terra e non riuscii più a muovermi.
«No!» udì una voce a pochi passi da me, non mi resi subito conto che non ero io ad aver parlato.
Il mostro espose due enormi canini affilati. Quella visione mi raggelò il sangue. La mia fine era vicina, sentivo il suo alito addosso, il suo verso stridulo prima che affondasse i denti nel mio collo.
«Vai via!»
Mi accorsi solo allora che c’era qualcun altro nella stanza. Dalla voce riconobbi mio nonno. Stava sventolando un crocefisso sopra di me. La donna mostruosa si allontanò da noi e, messa alle strette, balzò fuori dalla finestra. Tramutandosi in un grosso pipistrello nero. Una volta accertatosi che se ne fosse andata, il nonno mi soccorse. Nel frattempo si era svegliata tutta la famiglia, prima i miei fratelli, infine mia madre, che aveva il sonno pesante.
«Cos'è successo?» lei si gettò subito a controllare come stessi.
«Ha avuto un malore» rispose mio nonno.
In quel momento persi conoscenza.
Mi risvegliai nel mio letto. Mi faceva un po’ male la testa, ma avevo la forza di muovermi. Così mi alzai e cercai il mio vecchio. Dovevo fargli qualche domanda sulla questione “vampiro”. Lo cercai prima nella sua stanza, poi in salotto, ma non c’era. Così uscii in giardino e mi feci guidare dal mio istinto. Feci il giro della casa, fino al luogo dove era nascosta la botola. Scoprii che era aperta. Qualcuno era là dentro e se il mio intuito non m’ingannava doveva trattarsi del nonno.
Scesi più silenziosamente possibile le scale e raggiunsi il seminterrato senza farmi notare. Il nonno era proprio lì, e stava parlando con qualcuno. In tutti quegli anni non l’avevo mai sentito parlare così tanto.
«Lo sai che devi venire da me. Di me ti puoi fidare».
Notai che era chino sulla cassa aperta e guardava al suo interno, come se ci fosse qualcuno. Mi avvicinai un poco, giusto per capire se al suo interno ci fosse davvero qualcosa.
«In tutti questi anni ti ho protetta, Silvia. Perché sei entrata in casa mia senza il mio permesso? Ti rendi conto di quello che hai fatto?»
Nella cassa c’era una donna, sdraiata, apparentemente giovane e senza vita. La pelle era spenta, bianca come il marmo, il corpo magrissimo e sporco. Eppure non vi era la minima traccia di decomposizione, sembrava morta da poco tempo. Mio nonno stava parlando con il vampiro che mi aveva aggredito quella mattina.
«Cosa ci fai qui?» questa volta si rivolse a me.
I suoi occhi erano lucidi, non l’avevo mai visto piangere. L’unica emozione che avevo conosciuto in quell’essere umano era la collera. Non potevo credere che fosse capace di provare altre emozioni al di fuori di quella.
«Vai via».
Mi accorsi che aveva in pugno un paletto di legno. Allora capii. Li lasciai da soli e uscii all’aria aperta. Silvia era il nome di mia nonna. Quando ebbi nuovamente sott’occhio una delle sue fotografie, mi resi conto che era proprio lei. Una figura magra, slanciata, i capelli scuri, lunghi e ben acconciati, degli occhi grandi e suggestivi. Il mostro che avevo visto doveva essere lei e il nonno lo aveva nascosto in cantina per tutto questo tempo. Feci finta di niente, per il resto della giornata, ma dentro di me volevo fargli ancora altre domande. Attesi in casa il suo ritorno, ma le ore passarono e non lo vidi arrivare. Chiesi a mia madre, ma neanche lei l’aveva visto in giro. Così mi precipitai alla cantina, ma al suo interno non trovai più né il nonno, né il vampiro.
Mio nonno sparì quel giorno e non tornò mai più. Mia madre pensò che fosse partito per una delle sue solite passeggiate e avesse fatto qualche sciocchezza. Io invece ero certo che Silvia c’entrasse con la sua sparizione. Chissà in che modo.
Commenti